Ho avuto sempre una grande ammirazione per gli imprenditori che, partendo dall’idea di un oggetto, hanno avuto la capacità di crearlo, produrlo e lanciarlo sul mercato, in pieno stile “self made man” all’italiana.
E poi, una volta arrivati sul mercato, hanno avuto la tenacia e la costanza di far crescere la loro azienda, a costo di duro lavoro e sacrifici, per far fronte ai drammi e alle difficoltà quotidiane.
Poi subentra la fase della crescita per la quale, se aumentano fatturato, dipendenti e prodotti, l’occhio vigile e tuttofare dell’imprenditore non basta più. Allora è necessario fare il salto di qualità e strutturare l’azienda con processi, procedure, prassi, sistema gestionale, eccetera.
E a questo punto si crea uno spartiacque, uno spartiacque importante, perché, purtroppo, solo una piccola percentuale degli imprenditori, fa il passo in questa direzione. Ma chi lo fa, se supportato da un prodotto o servizio vincente e da una qualità impeccabile, più che un passo fa un salto verso lo sviluppo.
Chi non lo fa, e sono la stragrande maggioranza dei casi, è destinato a rimanere piccolo, perché l’imprenditore, che aveva fondato l’azienda, che l’ha fatta crescere senza lesinare energie e risorse, ne diventa il collo di bottiglia, il fattore inibente, l’ostacolo lo sviluppo.
Perché, se una retorica all’italiana dice che “piccolo è bello”, il pragmatismo imprenditoriale dice il contrario: le aziende piccole non hanno risorse sufficienti, know-how, economia di scala. E quello che sembrava un punto di forza si trasforma ahimè in una debolezza. Se non un incubo per la sopravvivenza.